1966
Era la notte tra il 3 e il 4 novembre 1966.
L’acqua intorno alle 22 già invadeva i “masegni” della città e continuava a crescere. Raggiunse, nelle prime ore di venerdì 4 novembre, la ragguardevole altezza di un metro e 27 centimetri. La cosa sarebbe rientrata se non ci fossero stati così tanti fattori meteorologici a cospirare quella notte contro Venezia: la fase lunare, il vento, la depressione atmosferica particolarmente sensibile e anche l’oscillazione del mare Adriatico nota con il nome di “sessa”. Fattori che contribuirono a produrre l’evento eccezionale che Giulio Obici definì "l’infarto" della città nel suo Venezia fino a quando?
Grosse masse di aria umida si erano accentrate nel Mediterraneo occidentale in seguito alla formazione di due centri di alta pressione, uno sull’Atlantico e l’altro sull’Europa orientale. Il forte vento di scirocco provocato dal centro di basse pressioni formatosi nelle vicinanze della Sardegna, si spostava verso est investendo tutto il territorio italiano e premeva agli sbocchi della laguna e alle foci dei fiumi ingrossati dalla pioggia che cadeva da alcuni giorni. Così alle 5 di mattina, quando, secondo il periodico alternarsi di flusso e riflusso, l’acqua avrebbe dovuto ritirarsi, lo fece in misura insignificante, preparando le condizioni per un disastrosi assommarsi di marea su marea, fino la totale collasso. Questo accadde verso mezzogiorno, quando arrivò la nuova ondata di marea: il mare non aveva ricevuto l’acqua accumulatasi in laguna e il livello riprese a crescere, fino all’altezza, mai raggiunta prima a quanto sia dato ricordare, di un metro e 94 centimetri.
Frattanto, in gran parte dell’Italia centro settentrionale, fiumi straripavano portando devastazione e morte: Firenze in particolare, fu unita al Veneto in questa occasione da un doloroso gemellaggio. Il 19 novembre il bilancio era di 110 vittime (nove dei quali tra i soccorritori ) e 6 dispersi.
Lungo i litorali delle lingue di terra che la natura aveva posto a difesa della laguna, raffiche di vento di più di cento chilometri orari sollevavano onde tanto alte da sommergere ogni cosa. Le strette isole di Pellestrina e di Lido e la penisola di Cavallino non bastavano più a dividere la laguna dal mare e venivano scavalcate da una mareggiata che spazzava via bestiame, macchine agricole, colture e valli da pesca, entrava nelle case, strappava le barche dai loro ormeggi. La violenza del mare a forza otto aprì falle disastrose anche nella difesa artificiale della laguna: quelle dighe chiamate “murazzi” che la Serenissima fece costruire nel Settecento, vere e proprie mura per integrare e protezioni naturali. Tremila persone provenienti da varie località del litorale, fuggite a bordo di barconi da pesca, trovarono rifugio in caserme, ospedali e scuole. Altri, ancora più sfortunati, attesero la fine della mareggiata sui tetti delle loro case. Nel centro storico di Venezia, sul selciato di Piazza San Marco, che è uno dei punti più bassi della città, gravava oltre un metro e venti di marea. L’acqua aveva fatto saltare ben presto i trasformatori elettrici e gli impianti telefonici, interrompendo le linee; aveva danneggiato tubazioni dell’acquedotto e affogato i bruciatori delle caldaie. E dalle cisterne degli impianti di riscaldamento si riversò all’esterno una quantità spropositata di nafta che coprì con uno strato oleoso e maleodorante la superficie delle acque.
Il ristagno della marea fece sì che, al suo ritiro, il combustibile lasciasse sui muri di case e palazzi l’impronta di una striscia nerastra. Nelle case al pianoterra, in quei magazzini di cui l’antica Repubblica aveva dichiarato l’inabitabilità, nel 1966 avevano alloggio sedicimila persone. Solo i ponti emergevano dalle onde e qualcuno vi trovò rifugio. Intanto, all’ingresso del porto, nove petroliere rimanevano incagliate sui bassi fondali. L’aeroporto Marco Polo di Tessera fu inattivo per giorni. A Murano le vetrerie furono quasi interamente distrutte: esplosi i forni, sradicate le centrali elettriche, frantumato i cristalli nei magazzini. Le attività di artigiani e di commercianti furono totalmente paralizzate. Anche l’approvvigionamento di generi alimentari fu sospeso, dato che l’acqua e la mancanza di corrente elettrica avevano reso inutilizzabili forni e celle frigorifere.
L’11 novembre i problemi delle immondizie e dell’illuminazione non erano ancora stati completamente risolti. Per la raccolta dei rifiuti furono impiegati 450 uomini, mentre squadre di specialisti cominciavano a sciogliere con solventi speciali le chiazze di nafta che ancora galleggiavano nei canali e a ripulire la parte inferiore degli edifici e dei monumenti della patina nerastra che vi si era depositata. Si tentò una prima valutazione dei danni: il Gazzettino del 13 novembre parlava, per il solo centro storico, di “almeno 35 miliardi” una cifra per allora assolutamente enorme.
Per la difesa di Venezia e della laguna dalle acque alte
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